Yulin 2014 |
Racconto di viaggio dell'amico Carmine |

Roma, marzo 2014
Fin da ragazzo ho sempre pensato che, in qualche maniera, il senso delle cose si compenetravano con il senso della natura, cioè ero disposto ad accettare gli eventi della mia vita come governati da fattori ancestrali che spingevano inconsciamente le mie azioni verso direzioni di cui a me sfuggiva il senso, ma che invece un senso tutto loro ce l’avevano, eccome. Così io, il mio lavoro, i miei viaggi, i miei incontri assumevano sempre più i contorni, lì per lì imperscrutabili, ma che invece poi si rivelavano fondamentali, se non imprescindibili da quello che si chiama ”il senso delle cose”. Fu così che conobbi l’astrologia. E’ stata per me la proiezione immaginaria del mio inconscio.
Allora, a marzo del 2013, mi apparve, come ineluttabili, il grande saturno contro e una serie di situazioni terribili che sarebbero accadute di lì a poco. Che faccio? Scappo? Divento un eremita? Faccio finta che tutto non è vero? Oppure divento buddista? La voglia di dimenticare tutto e nascondermi da qualche parte sotto terra, come fanno alcuni insetti nei periodi di siccità, e aspettare che tutto passi? Mi sentivo come una formica in bilico sull’orlo di un bicchiere, pronto a scivolare giù senza sapere che il mio sentiero impervio era solo circolare e mi avrebbe portato di nuovo al punto di partenza. Certo, non lo avrei mai saputo dal punto di vista della formica, ma il dubbio mi sarebbe rimasto, intatto nel tempo. E proprio a questo pensavo seduto su di una sedia di formica anni ’50, sotto una tettoia che a mala pena mi proteggeva da una pioggia incessante, fuori ad un lurido bar del decrepito centro storico di Yulin nella zona dello Shanxxi nella Cina del nord, a due passi dalla Mongolia, dove avevo deciso di passare il mio compleanno e il mio return solare. Proprio lì, calma e tranquilla, una piccola formica aveva deciso di tenermi compagnia passeggiando allegramente sull’orlo del bicchiere della mia coca cola cinese. Non mi era chiaro se stesse cercando di raggiungere quel liquido dolciastro o cercasse di evitare una morte improcrastinabile cadendo dentro quello che doveva sembrarle un oceano nero e minaccioso. Certo fu che tutto ad un tratto si fermò e mi guardò. Pensai che dovevo sembrarle un mostro gigantesco che ricambiava i suoi sguardi incuriositi, ma non fece nulla, si limitò a rimanere lì in un beato silenzio sospeso, come a dire: “Pensi che perché sei più grosso sei migliore di me?”. Non so cosa avrebbe fatto la mia amica formica nel pomeriggio, so solo che io, quel pomeriggio avrei fatto come quella formica che viaggiava in tondo oppure avrei deciso che quella era una strada senza fine e quindi avrei dovuto trovare una via diversa, anche se mi sentivo come lei, immersa in un mondo enorme, la Cina, e senza nessun punto di riferimento che mi avesse permesso di capirne l’immensità, di comprenderne i termini di spazio e di tempo, di riuscire a crearmene un concetto chiaro e definito. Ero proprio come quella formica immersa in quello spazio e tempo, indefinibili e incomprensibili. Come lei mi trovavo in un momento della mia vita dove tutto mi sembrava senza uscita, con burroni minacciosi da tutte le parti e le certezze di un tempo svanite nel nulla, come nebbia al sole. E fu proprio in quel momento, mentre pensavo ai baratri che mi circondavano, che la mia amica formica mi fregò. Con tutta la calma di questo mondo, prese a scendere tranquilla dall’orlo del bicchiere verso il tavolo, rinunciando a girare tutto intorno e, sicuramente, ad evitare la mia coca cola cinese. Aveva trovato la sua via di uscita, semplicemente, facendomi sentire ancora più stupido quando, con equilibrismi degni di uno scalatore professionista, raggiunse il piano del tavolo. Poi in fin dei conti, pensai, l’impresa non era stata così difficile. La via di uscita era molto più semplice di quello che uno avrebbe potuto immaginare e le risorse nascoste della piccola formica erano la sua forza e la sua possibile sopravvivenza.
Mi trovavo a Roma quando arrivò l’email di Katia che mi svelava il luogo migliore per il mio return solare e quel giorno mi prese un colpo. Yulin, Shanxxi, Cina del Nord a 18 mila chilometri da dove mi trovavo, un viaggio di 22 ore in aereo, da Roma a Mosca, di lì a Bejin e poi Yulin. Tre aerei diversi, quattro giorni di viaggio per stare solo 24 ore (due notti) nella meta prescelta. Mi prese proprio un colpo lì per lì, poi, come sempre avviene quando la vita ti dà una opportunità, pensai: Perché no?! Un viaggio che si prospettava di pura follia, un vero non sense. E allora? Perché no?! Se ti si presenta l’occasione, per una volta nella vita, perché non provare? Perché non provare a giocare anche con il proprio inconscio? Determinare nuovi limiti del proprio pensiero, rompendo le consuetudini, la quotidianità, le regole? Un viaggio così inaspettato, originale, al di fuori da qualunque logica consueta? Richiesi il visto. Dovevo trovarmi a Yulin entro le ore 19 del 8 maggio, il giorno prima del mio compleanno e il mio aereo di ritorno sarebbe stato la sera del 10.
Feci l’opposto di quello che faccio normalmente quando viaggio per lavoro in luoghi difficili e sconosciuti, cioè non mi organizzai affatto. Presi via internet, il primo albergo disponibile e l’indirizzo in cinese che, anche con tutta la buona volontà, sarebbe stato assolutamente incomprensibile, e mi imbarcai per Mosca. Avevo con me solo uno zainetto e il telefonino, l’unico contatto con il mondo.
Tralascio l’aeroporto di Mosca che già conoscevo e che è comunque troppo simile ai nostri (Armani, Klein, Prada, pizzeria Bella Napoli, hot dog, magliette e capelli moscoviti, ecc…). Dopo 4 ore di attesa mi imbarcai per Bejin. E lì incominciò a cambiare tutto.
Fu proprio nell’aereo che capii quanti erano i cinesi. Tanti, tanti, tanti (anche un pochino troppi) e poi, tutti uguali. A me i bambini sembravano grandi e i grandi bambini e tutti insieme, giovani, vecchi, donne e uomini, decisamente buffi. Trangugiavano ogni sorta di cibo e bevande, con una tale serietà e avidità che mi ricordavano gli americani obesi nei fast food a New York. Ma poi, nessuno si azzardava a chiedere di più, malgrado gli sguardi famelici. Fu proprio un vecchietto cinese, mio compagno di poltrona, che cominciò a puntare, decisamente intenzionato a dare seguito ai suoi sguardi, la mia bella fetta di formaggio che avevo evitato di toccare. Cominciò a parlarmi, con fare grazioso e una gentilezza tutta orientale, in cinese stretto (oddio, anche quello non stretto non lo avrei mai capito), indicandomi il pezzo di formaggio. Penso mi abbia parlato di sua moglie e dei suoi figli, con grande animosità e fare istrionico, aiutandosi con le mani e gesti da cantante lirico disoccupato o meglio sfigato. E continuava a guardare il mio pezzo di formaggio che secondo me gli faceva l’occhiolino di nascosto. L’aereo cominciò a traballare perché’ era entrato in una nuvola un po’ arrabbiata. Ci mettemmo le cinture, ma lui, tranquillo, continuava a sorridermi compiaciuto. I bicchieri del pranzo traballavano da tutte le parti, ma lui, lesto come una volpe, li prendeva a volo prima che cadessero. Io non lo fui altrettanto, facendo cadere la mia bevanda, meno male quasi finita, tra le gambe della signora vicina, cinese anche lei e bella grassoccia e impomatata, come solo le cinesi sanno fare. Il mio compagno, questa volta proprio come una volpe incallita, con la stessa destrezza, nel parapiglia generale, mi fece sparire il pezzo d formaggio tanto agognato. Quando lo cercai tra le gambe della signora grassoccia ,mi accorsi che anche lui lo cercava , lì per lì per aiutarmi, in realtà stava masticando velocemente il formaggio che mi aveva trafugato di nascosto, invisibile come una faina nella notte. Lo guardai dritto negli occhi e mentre stava buttando giù l’ultimo boccone del misfatto, mi sorrise allegramente e mi diede una piccola caramella bianca con tanti puntini neri, come risarcimento. La signora grassoccia, che aveva capito tutto, per rimediare, mi diede il suo pezzo di formaggio che io naturalmente per gentilezza rifiutai. Il vecchietto malandrino, non se lo fece ripetere due volte e, con il solito sorriso da buona mamma e la stessa mossa felina, acchiappò subito il secondo pezzo di formaggio e se lo buttò in bocca senza dare il tempo a nessuno di replicare. La signora si mise a ridere e io con lei, e pure il vecchietto tra le varie deglutizioni, più veloci della luce. Comunque, essendo l’unico europeo nell’aereo, a parte il personale russo, mi sentivo proprio come una mosca bianca, sensazione che si ingigantì all’arrivo a Bejin, la mitica Pechino dei nostri nonni.
Per un fumatore incallito come me, i viaggi in aereo sono un po’ complicati, specie quando si è in transfert e non si può uscire dalla zona degli imbarchi, quindi erano quasi 12 ore che non mi accendevo una sigaretta. Già mi immaginavo il controllo passaporti e dogana come un incubo. Nessuna scritta in inglese, non solo, nessuna scritta in qualunque lingua, solo geroglifici incomprensibili, nessuno che parlasse una lingua diversa dal cinese e invece no. Un’organizzazione perfetta, sapevano già tutto di me, ma proprio tutto. Superai i controlli in cinque minuti e quindi, dato che dovevo passare 6 ore lì, potevo raggiungere l’agognata uscita e poi fumarmi beatamente la mia prima sigaretta in territorio cinese. Ero tentato da un veloce giro in città, ma avrei aggiunto problemi a problemi e io quella sera dovevo assolutamente trovarmi a Yulin. E se fosse successo qualcosa? Se mi fossi perso, se non avessi trovato un taxi per tornare in aeroporto? Tutto il mio viaggio sarebbe stato un fallimento e non ne valeva la pena. Allora decisi di rimanere lì e vivermi quella sorta di terra di mezzo, di luoghi come quello, che non hanno poi una grande identità, sono tutti, più o meno, uguali agli altri. A Bejin era un po’ diverso, a Bejin la gente sorrideva come non avevo mai visto in altri aeroporti, sorridevano tutti. Forse lo facevano con me, per prendermi un po’ in giro, anche perché’ sono molto alto e chissà, mi dovevano vedere come una sorta di fenomeno da baraccone, un’attrazione inconsueta, dato che ero il doppio di loro.
La cosa che mi colpì erano i bambini, tutti belli e grassottelli, identici ai loro padri o madri, che non camminavano, ma letteralmente rimbalzavano come palle da tennis sul pavimento e si mettevano a ballare anche senza musica perché la facevano loro con la voce. Non parliamo poi dell’esterno. Mi accesi un’altra sigaretta (dovevo in qualche modo recuperare, si lo so non è bello, ma dopo tante ore…) e andai di nuovo fuori dove mi sedetti su un sedile di cemento, insieme ad altri fumatori incalliti che lasciavano sempre l’accendino dopo averlo utilizzato, sul bordo dei portacenere di cui era piena la zona in cui mi trovavo (poi capii perche’). E mi misi a guardare i cinesi. Per prima cosa, forse perché ero in aeroporto, le macchine più piccole che passavano a prendere gli arrivati, erano mercedes, maserati, ferrari ecc..tutte nuove di zecca, con personaggi che le guidavano veramente inquietanti ed erano inquietanti anche i passeggeri arrivati in aereo. Non ho mai capito, io che viaggio sempre con il mio zainetto, la necessità di partire per un viaggio con una marea di roba, veri e propri armadi prete a’ porter. Mi colpirono due ragazze molto giovani che trasportavano a fatica delle valige alte quanto loro e sicuramente più larghe di loro. Altro elemento che accomuna tutte le ragazze, sono i tacchi alti 18 cm. . Vi immaginate due ragazze che spingono a mala pena due valige più alte di loro con i tacchi 18? Sembrava a volte che fossero le valige a portare loro, perché incespicavano e poi cadevano e l’altra, a turno tirava giù la compagna con la relativa valigiona nell’indifferenza generale. Avevano mini coloratissime e capelli quasi a cresta (penso sempre per cercare di sembrare più alte). Gioiellini e catenine dal naso fin giù alle caviglie. Ad un tratto, dopo l’ennesima caduta, vidi una di loro che gesticolava come una matta, gridando istericamente verso una decappottabile mercedes tutta rosa metallizzata. Era un loro fidanzato. Il personaggio era come l’automobile, quando vi scese, aveva delle scarpe da tennis argentate con una leggera nuance rosata e parlava tranquillamente al telefonino (sono giganteschi, lo giuro) completamente incurante del dramma (tacchi 18, valigione e relative cadute) della fidanzata e amica. La piccola fidanzatina divenne peggio di una serpe imbufalita e, lasciando amica e valigiona per terra, andò a picchiare selvaggiamente il fidanzato che pareva non se ne fregasse nulla di quello che stava accadendo. Alla fine vinse lei e la telefonata interrotta. Come in un bel happy end, si abbracciarono affettuosamente dietro le imprecazioni dell’amica che era rimasta per terra incastrata tra le due valige e tentava di arrampicarsi di nuovo sui soliti tacchi 18 cm. Il fidanzato fece il suo dovere, prese una valigia, che rimaneva anche per lui più alta della sua statura, e cercò di caricarla in macchina, mentre la fidanzata, beata, si accomodava tranquillamente sul sedile anteriore. Per chi non lo sapesse, le mercedes decapottabili sono macchine bellissime, tutte accessoriate (poi questa era nuova di zecca), ma molto piccole. Il fidanzato tentò inutilmente di infilare la valigia nel portabagagli, ma non vi entrava. In quel momento risuonò il telefonino e lui rispose contento. La valigia cadde per terra dal portabagagli dove era rimasta in bilico, aprendosi tutta in una fantasia inquietante di slip tigrati, reggiseni multicolori, vestiti pusillanimi e una marea di trucchi di tutti i tipi. In casi come questi, mi rendo conto che le donne sono molto simili a tutte le latitudini e in tutti paesi del mondo, pure in Cina. Non vuoi che la fidanzata esce dalla macchina, riprende a dare calci al suo lui, imprecando nella loro lingua (ma c’era poco da immaginare)? Lui aveva dei deliziosi pantaloni pinocchietto, quelli che lasciano scoperte le caviglie su cui la fidanzatina si accanì con la precisione di un serpente a sonagli, facendo cadere il fidanzato per terra, strappandogli il dannato telefonino guastafeste, e facendoglielo volare dall’altra parte della strada. Il tutto con l’amica ancora per terra che non riusciva in nessuna maniera a risalire sulle sue stampelle tacchi 18. Insomma, alla fine, una valigia fu legata al portabagagli che rimase aperto, l’altra valigia insaccata sul sedile posteriore dopo aver aperto la capotte elettrica (sotto lo sguardo compiaciuto del fidanzato, che rimase tutto il tempo a guardare la tecnologia della sua macchina, innamorato), l’amica incuneata in quello che rimaneva di spazio dietro tra valigia e sedile anteriore, dove la fidanzata, finalmente calmata, si sedette e per stare larga, spinse il sedile il più possibile indietro schiacciando ulteriormente l’amica che emise un gelido grugnito doloroso, oramai rassegnata al sadismo incontrollabile e inconscio dell’altra compagna. Quando la macchina ripartì, tutti i fumatori, spettatori silenziosi del dramma famigliare, presero ad applaudire all’unisono.
Questa scena mi ripagò ampiamente delle ore di attesa in aeroporto.
Arrivai a Yulin alle 17 e 30 . Secondo e indicazioni che mi aveva dato Katia, dovevo essere lì per le 19, quindi ero in perfetto orario. Era sera. La piccola città di Yulin, (piccola per dire perché’ aveva circa 2 milioni e mezzo di abitanti, ma per la Cina è piccola), aveva un aeroporto che sembrava una stazione della borgata di piccolo paesino dalle nostre parti. Non c’era nulla, veramente un posto sperduto nel nulla assoluto. Quando le porte scorrevoli dell’atrio dell’aeroporto si aprirono, vidi solo cinque taxi e un piccolo autobus che stava arrivando e poi niente. Mi accesi l’ennesima sigaretta, il sole era calato, ma il cielo era tutto colorato dalla luce dell’imbrunire, colorato per lo smog, pensai, come quando arrivai la prima volta a New York. Un vero cielo pop. Mi diressi verso l’autobus in arrivo, quando una masnada di cinesi, che erano con me in aereo, mi sorpassò correndo e in pochi secondi vidi il piccolo autobus preso in un arrembaggio caotico di valige, bimbi piangenti, vecchi con un bastone che si facevano largo dando colpi da tutte le parti, insomma in vero e proprio bailamme che mi tolse tutta la voglia di parteciparvi. Mi diressi allora verso i taxi. Avevo con me solo l’indirizzo dell’albergo, meno male scritto in cinese, perché nessuno parlava altra lingua o leggeva altro che il cinese. Non capii più niente. I tassisti mi rimbalzavano da un taxi all’altro senza ragione. Alla fine mi infilarono in un taxi che aveva delle gentili tendine ricamate fatte all’uncinetto, completamente bisunte. Non capii perché non ci muovevamo e già immaginavo di passare la notte lì oppure che mi stavano per portare chissà dove. Era letteralmente impossibile comunicare con loro e io, dopo un giorno e mezzo di viaggio, non aspettavo altro che di raggiungere la mia camera d’albergo. Piano piano il taxi si riempì di altre persone, eravamo in sei inscatolati come sardine in una vecchia auto decrepita. La fortuna volle che si sedette accanto a me un ragazzo che studiava a Bejin e che parlava solo qualche parola di inglese. Fu la mia salvezza, perché’ mi assicurò che l’autista aveva capito dove doveva portarmi.
Mi attaccai a questa ancora di salvezza inaspettata. Lui mi fece capire che stavamo andando dalla stessa parte e mi sentii quasi protetto. Il taxi partì verso il nulla nella notte buia. Pian piano incominciai a vedere le prime luci dei sobborghi di Yulin, le strade, i negozi, le macchine. Man mano che andavamo avanti, i vari passeggeri mi lasciarono e alla fine anche il ragazzo gentile che parlava in inglese. Mi sentii un po’ perso, ero rimasto solo e la macchina si addentrava in una zona completamente deserta. E se mi davano una botta in testa e mi lasciavano lì? Guardavo con ansia le strade cercando un punto di riferimento qualsiasi nel caso dovessi trovarmi a piedi nel nulla più assoluto, ma era impossibile, il taxi si muoveva tra strade di palazzi in costruzione, per niente illuminate e sinceramente mi sembrava strano che lì ci potesse essere un albergo a 5 stelle che avevo prenotato da Roma. Ma come spesso mi è successo, mi mangiai le mani e capii sotto quanti pregiudizi siamo sotterrati fin da piccoli, perché ad un tratto l’enorme albergo che avevo prenotato apparve tutto multicolore Tirai un sospiro di sollievo. Ero arrivato.
Fin da ragazzo ho sempre pensato che, in qualche maniera, il senso delle cose si compenetravano con il senso della natura, cioè ero disposto ad accettare gli eventi della mia vita come governati da fattori ancestrali che spingevano inconsciamente le mie azioni verso direzioni di cui a me sfuggiva il senso, ma che invece un senso tutto loro ce l’avevano, eccome. Così io, il mio lavoro, i miei viaggi, i miei incontri assumevano sempre più i contorni, lì per lì imperscrutabili, ma che invece poi si rivelavano fondamentali, se non imprescindibili da quello che si chiama ”il senso delle cose”. Fu così che conobbi l’astrologia. E’ stata per me la proiezione immaginaria del mio inconscio.
Allora, a marzo del 2013, mi apparve, come ineluttabili, il grande saturno contro e una serie di situazioni terribili che sarebbero accadute di lì a poco. Che faccio? Scappo? Divento un eremita? Faccio finta che tutto non è vero? Oppure divento buddista? La voglia di dimenticare tutto e nascondermi da qualche parte sotto terra, come fanno alcuni insetti nei periodi di siccità, e aspettare che tutto passi? Mi sentivo come una formica in bilico sull’orlo di un bicchiere, pronto a scivolare giù senza sapere che il mio sentiero impervio era solo circolare e mi avrebbe portato di nuovo al punto di partenza. Certo, non lo avrei mai saputo dal punto di vista della formica, ma il dubbio mi sarebbe rimasto, intatto nel tempo. E proprio a questo pensavo seduto su di una sedia di formica anni ’50, sotto una tettoia che a mala pena mi proteggeva da una pioggia incessante, fuori ad un lurido bar del decrepito centro storico di Yulin nella zona dello Shanxxi nella Cina del nord, a due passi dalla Mongolia, dove avevo deciso di passare il mio compleanno e il mio return solare. Proprio lì, calma e tranquilla, una piccola formica aveva deciso di tenermi compagnia passeggiando allegramente sull’orlo del bicchiere della mia coca cola cinese. Non mi era chiaro se stesse cercando di raggiungere quel liquido dolciastro o cercasse di evitare una morte improcrastinabile cadendo dentro quello che doveva sembrarle un oceano nero e minaccioso. Certo fu che tutto ad un tratto si fermò e mi guardò. Pensai che dovevo sembrarle un mostro gigantesco che ricambiava i suoi sguardi incuriositi, ma non fece nulla, si limitò a rimanere lì in un beato silenzio sospeso, come a dire: “Pensi che perché sei più grosso sei migliore di me?”. Non so cosa avrebbe fatto la mia amica formica nel pomeriggio, so solo che io, quel pomeriggio avrei fatto come quella formica che viaggiava in tondo oppure avrei deciso che quella era una strada senza fine e quindi avrei dovuto trovare una via diversa, anche se mi sentivo come lei, immersa in un mondo enorme, la Cina, e senza nessun punto di riferimento che mi avesse permesso di capirne l’immensità, di comprenderne i termini di spazio e di tempo, di riuscire a crearmene un concetto chiaro e definito. Ero proprio come quella formica immersa in quello spazio e tempo, indefinibili e incomprensibili. Come lei mi trovavo in un momento della mia vita dove tutto mi sembrava senza uscita, con burroni minacciosi da tutte le parti e le certezze di un tempo svanite nel nulla, come nebbia al sole. E fu proprio in quel momento, mentre pensavo ai baratri che mi circondavano, che la mia amica formica mi fregò. Con tutta la calma di questo mondo, prese a scendere tranquilla dall’orlo del bicchiere verso il tavolo, rinunciando a girare tutto intorno e, sicuramente, ad evitare la mia coca cola cinese. Aveva trovato la sua via di uscita, semplicemente, facendomi sentire ancora più stupido quando, con equilibrismi degni di uno scalatore professionista, raggiunse il piano del tavolo. Poi in fin dei conti, pensai, l’impresa non era stata così difficile. La via di uscita era molto più semplice di quello che uno avrebbe potuto immaginare e le risorse nascoste della piccola formica erano la sua forza e la sua possibile sopravvivenza.
Mi trovavo a Roma quando arrivò l’email di Katia che mi svelava il luogo migliore per il mio return solare e quel giorno mi prese un colpo. Yulin, Shanxxi, Cina del Nord a 18 mila chilometri da dove mi trovavo, un viaggio di 22 ore in aereo, da Roma a Mosca, di lì a Bejin e poi Yulin. Tre aerei diversi, quattro giorni di viaggio per stare solo 24 ore (due notti) nella meta prescelta. Mi prese proprio un colpo lì per lì, poi, come sempre avviene quando la vita ti dà una opportunità, pensai: Perché no?! Un viaggio che si prospettava di pura follia, un vero non sense. E allora? Perché no?! Se ti si presenta l’occasione, per una volta nella vita, perché non provare? Perché non provare a giocare anche con il proprio inconscio? Determinare nuovi limiti del proprio pensiero, rompendo le consuetudini, la quotidianità, le regole? Un viaggio così inaspettato, originale, al di fuori da qualunque logica consueta? Richiesi il visto. Dovevo trovarmi a Yulin entro le ore 19 del 8 maggio, il giorno prima del mio compleanno e il mio aereo di ritorno sarebbe stato la sera del 10.
Feci l’opposto di quello che faccio normalmente quando viaggio per lavoro in luoghi difficili e sconosciuti, cioè non mi organizzai affatto. Presi via internet, il primo albergo disponibile e l’indirizzo in cinese che, anche con tutta la buona volontà, sarebbe stato assolutamente incomprensibile, e mi imbarcai per Mosca. Avevo con me solo uno zainetto e il telefonino, l’unico contatto con il mondo.
Tralascio l’aeroporto di Mosca che già conoscevo e che è comunque troppo simile ai nostri (Armani, Klein, Prada, pizzeria Bella Napoli, hot dog, magliette e capelli moscoviti, ecc…). Dopo 4 ore di attesa mi imbarcai per Bejin. E lì incominciò a cambiare tutto.
Fu proprio nell’aereo che capii quanti erano i cinesi. Tanti, tanti, tanti (anche un pochino troppi) e poi, tutti uguali. A me i bambini sembravano grandi e i grandi bambini e tutti insieme, giovani, vecchi, donne e uomini, decisamente buffi. Trangugiavano ogni sorta di cibo e bevande, con una tale serietà e avidità che mi ricordavano gli americani obesi nei fast food a New York. Ma poi, nessuno si azzardava a chiedere di più, malgrado gli sguardi famelici. Fu proprio un vecchietto cinese, mio compagno di poltrona, che cominciò a puntare, decisamente intenzionato a dare seguito ai suoi sguardi, la mia bella fetta di formaggio che avevo evitato di toccare. Cominciò a parlarmi, con fare grazioso e una gentilezza tutta orientale, in cinese stretto (oddio, anche quello non stretto non lo avrei mai capito), indicandomi il pezzo di formaggio. Penso mi abbia parlato di sua moglie e dei suoi figli, con grande animosità e fare istrionico, aiutandosi con le mani e gesti da cantante lirico disoccupato o meglio sfigato. E continuava a guardare il mio pezzo di formaggio che secondo me gli faceva l’occhiolino di nascosto. L’aereo cominciò a traballare perché’ era entrato in una nuvola un po’ arrabbiata. Ci mettemmo le cinture, ma lui, tranquillo, continuava a sorridermi compiaciuto. I bicchieri del pranzo traballavano da tutte le parti, ma lui, lesto come una volpe, li prendeva a volo prima che cadessero. Io non lo fui altrettanto, facendo cadere la mia bevanda, meno male quasi finita, tra le gambe della signora vicina, cinese anche lei e bella grassoccia e impomatata, come solo le cinesi sanno fare. Il mio compagno, questa volta proprio come una volpe incallita, con la stessa destrezza, nel parapiglia generale, mi fece sparire il pezzo d formaggio tanto agognato. Quando lo cercai tra le gambe della signora grassoccia ,mi accorsi che anche lui lo cercava , lì per lì per aiutarmi, in realtà stava masticando velocemente il formaggio che mi aveva trafugato di nascosto, invisibile come una faina nella notte. Lo guardai dritto negli occhi e mentre stava buttando giù l’ultimo boccone del misfatto, mi sorrise allegramente e mi diede una piccola caramella bianca con tanti puntini neri, come risarcimento. La signora grassoccia, che aveva capito tutto, per rimediare, mi diede il suo pezzo di formaggio che io naturalmente per gentilezza rifiutai. Il vecchietto malandrino, non se lo fece ripetere due volte e, con il solito sorriso da buona mamma e la stessa mossa felina, acchiappò subito il secondo pezzo di formaggio e se lo buttò in bocca senza dare il tempo a nessuno di replicare. La signora si mise a ridere e io con lei, e pure il vecchietto tra le varie deglutizioni, più veloci della luce. Comunque, essendo l’unico europeo nell’aereo, a parte il personale russo, mi sentivo proprio come una mosca bianca, sensazione che si ingigantì all’arrivo a Bejin, la mitica Pechino dei nostri nonni.
Per un fumatore incallito come me, i viaggi in aereo sono un po’ complicati, specie quando si è in transfert e non si può uscire dalla zona degli imbarchi, quindi erano quasi 12 ore che non mi accendevo una sigaretta. Già mi immaginavo il controllo passaporti e dogana come un incubo. Nessuna scritta in inglese, non solo, nessuna scritta in qualunque lingua, solo geroglifici incomprensibili, nessuno che parlasse una lingua diversa dal cinese e invece no. Un’organizzazione perfetta, sapevano già tutto di me, ma proprio tutto. Superai i controlli in cinque minuti e quindi, dato che dovevo passare 6 ore lì, potevo raggiungere l’agognata uscita e poi fumarmi beatamente la mia prima sigaretta in territorio cinese. Ero tentato da un veloce giro in città, ma avrei aggiunto problemi a problemi e io quella sera dovevo assolutamente trovarmi a Yulin. E se fosse successo qualcosa? Se mi fossi perso, se non avessi trovato un taxi per tornare in aeroporto? Tutto il mio viaggio sarebbe stato un fallimento e non ne valeva la pena. Allora decisi di rimanere lì e vivermi quella sorta di terra di mezzo, di luoghi come quello, che non hanno poi una grande identità, sono tutti, più o meno, uguali agli altri. A Bejin era un po’ diverso, a Bejin la gente sorrideva come non avevo mai visto in altri aeroporti, sorridevano tutti. Forse lo facevano con me, per prendermi un po’ in giro, anche perché’ sono molto alto e chissà, mi dovevano vedere come una sorta di fenomeno da baraccone, un’attrazione inconsueta, dato che ero il doppio di loro.
La cosa che mi colpì erano i bambini, tutti belli e grassottelli, identici ai loro padri o madri, che non camminavano, ma letteralmente rimbalzavano come palle da tennis sul pavimento e si mettevano a ballare anche senza musica perché la facevano loro con la voce. Non parliamo poi dell’esterno. Mi accesi un’altra sigaretta (dovevo in qualche modo recuperare, si lo so non è bello, ma dopo tante ore…) e andai di nuovo fuori dove mi sedetti su un sedile di cemento, insieme ad altri fumatori incalliti che lasciavano sempre l’accendino dopo averlo utilizzato, sul bordo dei portacenere di cui era piena la zona in cui mi trovavo (poi capii perche’). E mi misi a guardare i cinesi. Per prima cosa, forse perché ero in aeroporto, le macchine più piccole che passavano a prendere gli arrivati, erano mercedes, maserati, ferrari ecc..tutte nuove di zecca, con personaggi che le guidavano veramente inquietanti ed erano inquietanti anche i passeggeri arrivati in aereo. Non ho mai capito, io che viaggio sempre con il mio zainetto, la necessità di partire per un viaggio con una marea di roba, veri e propri armadi prete a’ porter. Mi colpirono due ragazze molto giovani che trasportavano a fatica delle valige alte quanto loro e sicuramente più larghe di loro. Altro elemento che accomuna tutte le ragazze, sono i tacchi alti 18 cm. . Vi immaginate due ragazze che spingono a mala pena due valige più alte di loro con i tacchi 18? Sembrava a volte che fossero le valige a portare loro, perché incespicavano e poi cadevano e l’altra, a turno tirava giù la compagna con la relativa valigiona nell’indifferenza generale. Avevano mini coloratissime e capelli quasi a cresta (penso sempre per cercare di sembrare più alte). Gioiellini e catenine dal naso fin giù alle caviglie. Ad un tratto, dopo l’ennesima caduta, vidi una di loro che gesticolava come una matta, gridando istericamente verso una decappottabile mercedes tutta rosa metallizzata. Era un loro fidanzato. Il personaggio era come l’automobile, quando vi scese, aveva delle scarpe da tennis argentate con una leggera nuance rosata e parlava tranquillamente al telefonino (sono giganteschi, lo giuro) completamente incurante del dramma (tacchi 18, valigione e relative cadute) della fidanzata e amica. La piccola fidanzatina divenne peggio di una serpe imbufalita e, lasciando amica e valigiona per terra, andò a picchiare selvaggiamente il fidanzato che pareva non se ne fregasse nulla di quello che stava accadendo. Alla fine vinse lei e la telefonata interrotta. Come in un bel happy end, si abbracciarono affettuosamente dietro le imprecazioni dell’amica che era rimasta per terra incastrata tra le due valige e tentava di arrampicarsi di nuovo sui soliti tacchi 18 cm. Il fidanzato fece il suo dovere, prese una valigia, che rimaneva anche per lui più alta della sua statura, e cercò di caricarla in macchina, mentre la fidanzata, beata, si accomodava tranquillamente sul sedile anteriore. Per chi non lo sapesse, le mercedes decapottabili sono macchine bellissime, tutte accessoriate (poi questa era nuova di zecca), ma molto piccole. Il fidanzato tentò inutilmente di infilare la valigia nel portabagagli, ma non vi entrava. In quel momento risuonò il telefonino e lui rispose contento. La valigia cadde per terra dal portabagagli dove era rimasta in bilico, aprendosi tutta in una fantasia inquietante di slip tigrati, reggiseni multicolori, vestiti pusillanimi e una marea di trucchi di tutti i tipi. In casi come questi, mi rendo conto che le donne sono molto simili a tutte le latitudini e in tutti paesi del mondo, pure in Cina. Non vuoi che la fidanzata esce dalla macchina, riprende a dare calci al suo lui, imprecando nella loro lingua (ma c’era poco da immaginare)? Lui aveva dei deliziosi pantaloni pinocchietto, quelli che lasciano scoperte le caviglie su cui la fidanzatina si accanì con la precisione di un serpente a sonagli, facendo cadere il fidanzato per terra, strappandogli il dannato telefonino guastafeste, e facendoglielo volare dall’altra parte della strada. Il tutto con l’amica ancora per terra che non riusciva in nessuna maniera a risalire sulle sue stampelle tacchi 18. Insomma, alla fine, una valigia fu legata al portabagagli che rimase aperto, l’altra valigia insaccata sul sedile posteriore dopo aver aperto la capotte elettrica (sotto lo sguardo compiaciuto del fidanzato, che rimase tutto il tempo a guardare la tecnologia della sua macchina, innamorato), l’amica incuneata in quello che rimaneva di spazio dietro tra valigia e sedile anteriore, dove la fidanzata, finalmente calmata, si sedette e per stare larga, spinse il sedile il più possibile indietro schiacciando ulteriormente l’amica che emise un gelido grugnito doloroso, oramai rassegnata al sadismo incontrollabile e inconscio dell’altra compagna. Quando la macchina ripartì, tutti i fumatori, spettatori silenziosi del dramma famigliare, presero ad applaudire all’unisono.
Questa scena mi ripagò ampiamente delle ore di attesa in aeroporto.
Arrivai a Yulin alle 17 e 30 . Secondo e indicazioni che mi aveva dato Katia, dovevo essere lì per le 19, quindi ero in perfetto orario. Era sera. La piccola città di Yulin, (piccola per dire perché’ aveva circa 2 milioni e mezzo di abitanti, ma per la Cina è piccola), aveva un aeroporto che sembrava una stazione della borgata di piccolo paesino dalle nostre parti. Non c’era nulla, veramente un posto sperduto nel nulla assoluto. Quando le porte scorrevoli dell’atrio dell’aeroporto si aprirono, vidi solo cinque taxi e un piccolo autobus che stava arrivando e poi niente. Mi accesi l’ennesima sigaretta, il sole era calato, ma il cielo era tutto colorato dalla luce dell’imbrunire, colorato per lo smog, pensai, come quando arrivai la prima volta a New York. Un vero cielo pop. Mi diressi verso l’autobus in arrivo, quando una masnada di cinesi, che erano con me in aereo, mi sorpassò correndo e in pochi secondi vidi il piccolo autobus preso in un arrembaggio caotico di valige, bimbi piangenti, vecchi con un bastone che si facevano largo dando colpi da tutte le parti, insomma in vero e proprio bailamme che mi tolse tutta la voglia di parteciparvi. Mi diressi allora verso i taxi. Avevo con me solo l’indirizzo dell’albergo, meno male scritto in cinese, perché nessuno parlava altra lingua o leggeva altro che il cinese. Non capii più niente. I tassisti mi rimbalzavano da un taxi all’altro senza ragione. Alla fine mi infilarono in un taxi che aveva delle gentili tendine ricamate fatte all’uncinetto, completamente bisunte. Non capii perché non ci muovevamo e già immaginavo di passare la notte lì oppure che mi stavano per portare chissà dove. Era letteralmente impossibile comunicare con loro e io, dopo un giorno e mezzo di viaggio, non aspettavo altro che di raggiungere la mia camera d’albergo. Piano piano il taxi si riempì di altre persone, eravamo in sei inscatolati come sardine in una vecchia auto decrepita. La fortuna volle che si sedette accanto a me un ragazzo che studiava a Bejin e che parlava solo qualche parola di inglese. Fu la mia salvezza, perché’ mi assicurò che l’autista aveva capito dove doveva portarmi.
Mi attaccai a questa ancora di salvezza inaspettata. Lui mi fece capire che stavamo andando dalla stessa parte e mi sentii quasi protetto. Il taxi partì verso il nulla nella notte buia. Pian piano incominciai a vedere le prime luci dei sobborghi di Yulin, le strade, i negozi, le macchine. Man mano che andavamo avanti, i vari passeggeri mi lasciarono e alla fine anche il ragazzo gentile che parlava in inglese. Mi sentii un po’ perso, ero rimasto solo e la macchina si addentrava in una zona completamente deserta. E se mi davano una botta in testa e mi lasciavano lì? Guardavo con ansia le strade cercando un punto di riferimento qualsiasi nel caso dovessi trovarmi a piedi nel nulla più assoluto, ma era impossibile, il taxi si muoveva tra strade di palazzi in costruzione, per niente illuminate e sinceramente mi sembrava strano che lì ci potesse essere un albergo a 5 stelle che avevo prenotato da Roma. Ma come spesso mi è successo, mi mangiai le mani e capii sotto quanti pregiudizi siamo sotterrati fin da piccoli, perché ad un tratto l’enorme albergo che avevo prenotato apparve tutto multicolore Tirai un sospiro di sollievo. Ero arrivato.

Essendo l’albergo internazionale, modernissimo e provvisto di tutto, cioè piscina, spa ecc… immaginai che si parlasse in inglese. Niente da fare purtroppo. Ma la gentile signorina all’accettazione era sveglia. Sempre con questi telefonini megagalattici ed enormi, mi faceva scrivere le domande in inglese e poi ne leggeva la traduzione in cinese, scrivendo le risposte in cinese e così via. Insomma alla fine raggiunsi la mia camera e rimasi un’ora disteso nella vasca da bagno. La camera faceva invidia a quelle dei nostri super alberghi, con un televisore enorme alla parete che però faceva vedere solo film cinesi (in cinese), un bagno con tutto quello che si può immaginare grande quanto la stanza da letto, salottino e così via.
Il momento più difficile arrivò a mezzanotte. Mi guardai attorno, ero solo, avevo mangiato un piatto occidentale, la tv mandava in onda terribili film d’azione con tanto di sangue finto e inseguimenti, teste mozzate e televendite di letti d’artigianato locale. Che ci faccio qui? A 18 mila chilometri da casa mia, in un albergo che sembrava sorto dal nulla, nella nuova zona di sviluppo industriale di Yulin? Per fare cosa poi?
Quando viaggio porto con me sempre un libro, questa volta feci un errore, mi ero portato Cent’anni di solitudine di Marquez.
Era morto da poco e quel libro lo avevo letto in gioventù e me ne ero dimenticato. Ma l’errore fu che mi trovavo in un posto che non aveva niente a che fare con quello che leggevo, una storia sudamericana nel nord della Cina. Che cavolata!
Guardavo dalla finestra e lì fuori c’era il nulla assoluto, tutto buio e solo piccole luci lontane. Ero come perso su un isola senza nome ne’ destino. Questa era la Cina? Il return solare era già avvenuto oppure dovevo aspettare fino al giorno dopo? Immagini senza senso e bocche che si muovevano senza audio (a che sarebbe servito?) popolavano il grande televisore a parete, riempiendo inutilmente quella stanza lussuosa che sembrava voler essere prettamente occidentale. Nell’armadio, in uno stipetto, trovai delle maschere a gas in caso di un attacco chimico! “Stiamo a posto” pensai.
Intorno all’una di notte incominciarono ad arrivare decine di messaggi di auguri sul mio cellulare dall’Italia e, in qualche maniera, mi ricollegai con il mondo. Spensi la luce e chiusi gli occhi. Forse il mio return solare era avvenuto in quel momento.
Il momento più difficile arrivò a mezzanotte. Mi guardai attorno, ero solo, avevo mangiato un piatto occidentale, la tv mandava in onda terribili film d’azione con tanto di sangue finto e inseguimenti, teste mozzate e televendite di letti d’artigianato locale. Che ci faccio qui? A 18 mila chilometri da casa mia, in un albergo che sembrava sorto dal nulla, nella nuova zona di sviluppo industriale di Yulin? Per fare cosa poi?
Quando viaggio porto con me sempre un libro, questa volta feci un errore, mi ero portato Cent’anni di solitudine di Marquez.
Era morto da poco e quel libro lo avevo letto in gioventù e me ne ero dimenticato. Ma l’errore fu che mi trovavo in un posto che non aveva niente a che fare con quello che leggevo, una storia sudamericana nel nord della Cina. Che cavolata!
Guardavo dalla finestra e lì fuori c’era il nulla assoluto, tutto buio e solo piccole luci lontane. Ero come perso su un isola senza nome ne’ destino. Questa era la Cina? Il return solare era già avvenuto oppure dovevo aspettare fino al giorno dopo? Immagini senza senso e bocche che si muovevano senza audio (a che sarebbe servito?) popolavano il grande televisore a parete, riempiendo inutilmente quella stanza lussuosa che sembrava voler essere prettamente occidentale. Nell’armadio, in uno stipetto, trovai delle maschere a gas in caso di un attacco chimico! “Stiamo a posto” pensai.
Intorno all’una di notte incominciarono ad arrivare decine di messaggi di auguri sul mio cellulare dall’Italia e, in qualche maniera, mi ricollegai con il mondo. Spensi la luce e chiusi gli occhi. Forse il mio return solare era avvenuto in quel momento.

La mia amica Katia mi disse di stare attento ai primi 20 giorni dopo il mio compleanno, in quel arco di tempo si sarebbero concentrati gli avvenimenti legati al mio anno solare. La mattina dopo , quindi, cercavo di dare valore a quello che mi stava succedendo.
La prima cosa che mi capitò fu la colazione. L’albergo dove ero aveva velleità di grande albergo di lusso quindi la colazione pure. Un salone immenso conteneva un ben di dio di roba e quindi non mi rimase altro che strafogarmi nel vero senso della parola. Solo in un angolo c’erano cibarie strettamente cinesi, ma tutto il resto era luculliano. La seconda cosa fu il centro città. Mi ero fatto scrivere in cinese il nome della strada più importante, quindi non mi fu difficile arrivarci con un taxi. Ed ecco che mi trovai nella Cina vera ed erano in tanti, ma proprio tanti. Il giro era il solito: supermercati, grandi magazzini, grandi strade trafficate, la via più elegante (anche qui con Armani, Klein, Prada, Bella Napoli, ecc…) tutti rigorosamente finti e copie perfette. La cosa che mi colpì fu 1: non gliene fregava nulla di vedere uno straniero per le loro strade, 2: tutti avevano telefonini enormi che usano manco fossero Ipad (doveva essere molto di moda usarli e far vedere di possederli) 3: i cinesi amano tantissimo fare le cose di gruppo della serie: ci vestiamo uguali, i capelli sono gli stessi, a volte dipinti dello stesso colore, prima di fare qualcosa si mettono in circolo e raggiunto l’accordo, gridano tutti insieme come se fossero una squadra di rugby, 4: ecc….ecc…
Tutti spazi enormi con grandissimi schermi sui palazzi che mandano pubblicità coloratissime, manco fossi a Times Square e, contemporaneamente, vigilesse con mascherine antismog addobbate come tende ricamate con merletti. Poi televisori di tutti i tipi messi da tutte le parti, anche nei taxi.
La prima cosa che mi capitò fu la colazione. L’albergo dove ero aveva velleità di grande albergo di lusso quindi la colazione pure. Un salone immenso conteneva un ben di dio di roba e quindi non mi rimase altro che strafogarmi nel vero senso della parola. Solo in un angolo c’erano cibarie strettamente cinesi, ma tutto il resto era luculliano. La seconda cosa fu il centro città. Mi ero fatto scrivere in cinese il nome della strada più importante, quindi non mi fu difficile arrivarci con un taxi. Ed ecco che mi trovai nella Cina vera ed erano in tanti, ma proprio tanti. Il giro era il solito: supermercati, grandi magazzini, grandi strade trafficate, la via più elegante (anche qui con Armani, Klein, Prada, Bella Napoli, ecc…) tutti rigorosamente finti e copie perfette. La cosa che mi colpì fu 1: non gliene fregava nulla di vedere uno straniero per le loro strade, 2: tutti avevano telefonini enormi che usano manco fossero Ipad (doveva essere molto di moda usarli e far vedere di possederli) 3: i cinesi amano tantissimo fare le cose di gruppo della serie: ci vestiamo uguali, i capelli sono gli stessi, a volte dipinti dello stesso colore, prima di fare qualcosa si mettono in circolo e raggiunto l’accordo, gridano tutti insieme come se fossero una squadra di rugby, 4: ecc….ecc…
Tutti spazi enormi con grandissimi schermi sui palazzi che mandano pubblicità coloratissime, manco fossi a Times Square e, contemporaneamente, vigilesse con mascherine antismog addobbate come tende ricamate con merletti. Poi televisori di tutti i tipi messi da tutte le parti, anche nei taxi.

Mi allontanai dalla strada principale e mi addentrai in una parallela dove cambiava tutto. Dai bottegai che squarciavano teste di maiale in due ai venditori di matite per la scuola e anche il mio caro baretto con la coca cola cinese e la formica di prima.
Quando, ad un tratto, scoppiò un enorme temporale. Era l’ora dell’uscita dalla scuola dei ragazzi delle elementari. Le strade si riempirono di tanti scolaretti tutti vestiti perfettamente uguali e tutti con il loro ombrellino cinese dello stesso colore. Ne comprai anche io uno e scoprii che mentre in Italia gli ombrelli cinesi si distruggono dopo la prima pioggia, lì erano veramente efficienti quindi pensai che da noi arriva solo la loro merce scadente. In una delle poche librerie che trovai accanto al tagliatore di teste di maiale (era bravo, un colpo e via e tutte le teste, almeno una dozzina, venivano messe tagliate a metà in un secchio) trovai, tra i libri sudici di seconda mano, uno in francese che parlava dei 120 canti sull’amore e la natura di Lao Min Tung, nato a Yulin 700 anni fa, e che voracemente comprai a 20 centesimi sotto lo sguardo incredulo del commerciante che mi prese per scemo.
Quando, ad un tratto, scoppiò un enorme temporale. Era l’ora dell’uscita dalla scuola dei ragazzi delle elementari. Le strade si riempirono di tanti scolaretti tutti vestiti perfettamente uguali e tutti con il loro ombrellino cinese dello stesso colore. Ne comprai anche io uno e scoprii che mentre in Italia gli ombrelli cinesi si distruggono dopo la prima pioggia, lì erano veramente efficienti quindi pensai che da noi arriva solo la loro merce scadente. In una delle poche librerie che trovai accanto al tagliatore di teste di maiale (era bravo, un colpo e via e tutte le teste, almeno una dozzina, venivano messe tagliate a metà in un secchio) trovai, tra i libri sudici di seconda mano, uno in francese che parlava dei 120 canti sull’amore e la natura di Lao Min Tung, nato a Yulin 700 anni fa, e che voracemente comprai a 20 centesimi sotto lo sguardo incredulo del commerciante che mi prese per scemo.

Con la pioggia la città, che sembrava tutta bella e ordinata si trasformò in fiumi di fango puzzolente e un caos inenarrabile di macchine che correvano all’impazzata con relativi incidenti. Dopo aver girovagato abbastanza presi uno dei pochi taxi disponibili e tornai in albergo, con il mio libro nello zainetto.
La mia seconda notte passò tra i canti sull’amore del poeta sconosciuto e formiche che cadevano in liquami neri e misteriosi. Il giorno dopo sarei ripartito, ma avevo tempo per vedere la grande muraglia cinese e da lì la Mongolia. I cinesi sono bravi nel ricostruire perfettamente le loro origini antiche facendo dei veri e propri fake, cioè dei falsi di quello che era un tempo, e lì a Yulin c’era una grande torre , ultimo avamposto dell’impero a protezione dei mongoli cattivi e affamati che tentavano di impadronirsi di quel territorio. Salii su in cima e la Mongolia fu un vero disastro. Quello che doveva essere un avamposto mitico si era trasformato in una landa deserta piena di autostrade e fabbriche modernissime.
Allora tentai di immaginare cosa dovevano provare i grandi guerrieri cinesi quando avvistavano le orde mongole arrivare dal grande deserto del nord. L’ansia e la paura dei guerrieri pronti a dare la vita per difendere quella torre e il loro impero. Fu come un abbaglio antico e una sensazione che solo l’immaginazione poteva ridarmi, tra le strofe dei canti di Lao che univa l’amore alla natura, in un evolversi concettuale dello spazio e del tempo che davanti ai miei occhi aveva perso tutta la sua poesia. E, in una chiave personale e strettamente intimista, mi chiesi cosa mi sarebbe successo col mio return solare lì, a due passi dalla Mongolia a 18 mila chilometri da casa, come quella piccola formica indecisa sull’orlo del bicchiere.
Quando salii sull’aereo che mi avrebbe riportato in Italia ero certo che avrei avuto un anno intero per scoprirlo. Ma, comunque, quella era stata e sarebbe rimasta una esperienza unica, forse una maniera per una rinascita, per trovare una strada nuova e sconosciuta al mio modo di intendere il “senso delle cose”.
La mia seconda notte passò tra i canti sull’amore del poeta sconosciuto e formiche che cadevano in liquami neri e misteriosi. Il giorno dopo sarei ripartito, ma avevo tempo per vedere la grande muraglia cinese e da lì la Mongolia. I cinesi sono bravi nel ricostruire perfettamente le loro origini antiche facendo dei veri e propri fake, cioè dei falsi di quello che era un tempo, e lì a Yulin c’era una grande torre , ultimo avamposto dell’impero a protezione dei mongoli cattivi e affamati che tentavano di impadronirsi di quel territorio. Salii su in cima e la Mongolia fu un vero disastro. Quello che doveva essere un avamposto mitico si era trasformato in una landa deserta piena di autostrade e fabbriche modernissime.
Allora tentai di immaginare cosa dovevano provare i grandi guerrieri cinesi quando avvistavano le orde mongole arrivare dal grande deserto del nord. L’ansia e la paura dei guerrieri pronti a dare la vita per difendere quella torre e il loro impero. Fu come un abbaglio antico e una sensazione che solo l’immaginazione poteva ridarmi, tra le strofe dei canti di Lao che univa l’amore alla natura, in un evolversi concettuale dello spazio e del tempo che davanti ai miei occhi aveva perso tutta la sua poesia. E, in una chiave personale e strettamente intimista, mi chiesi cosa mi sarebbe successo col mio return solare lì, a due passi dalla Mongolia a 18 mila chilometri da casa, come quella piccola formica indecisa sull’orlo del bicchiere.
Quando salii sull’aereo che mi avrebbe riportato in Italia ero certo che avrei avuto un anno intero per scoprirlo. Ma, comunque, quella era stata e sarebbe rimasta una esperienza unica, forse una maniera per una rinascita, per trovare una strada nuova e sconosciuta al mio modo di intendere il “senso delle cose”.